Dagli appalti pubblici ai diritti civili, la stretta americana sull’inclusione impone scelte radicali. E chiama l’Europa a resistere.
Con l’Ordine Esecutivo 14173, firmato a gennaio, l’amministrazione Trump ha compiuto un cambio di passo netto e controverso rispetto alle politiche inclusive della precedente presidenza. La misura vieta esplicitamente alle aziende che lavorano con il governo federale statunitense di adottare programmi di Diversity, Equity & Inclusion (DEI) che prevedano preferenze basate su razza, genere, orientamento sessuale o altre caratteristiche protette, dichiarandole illegali. Una svolta ideologica che riscrive le regole del gioco per milioni di lavoratori, imprese globali e istituzioni pubbliche.
Cosa prevede l’Ordine Esecutivo 14173
Il testo del provvedimento non definisce chiaramente quali siano le pratiche vietate, ma dichiara illegali tutte le iniziative che implichino “preferenze” nell’assunzione, promozione o trattamento del personale. Questo genera un clima di forte incertezza giuridica, che ha spinto molte aziende a dismettere proattivamente qualsiasi politica DEI per evitare rischi.
Il provvedimento riguarda tutte le aziende fornitrici della pubblica amministrazione americana, comprese multinazionali della difesa, colossi tecnologici, istituti di ricerca, fornitori di servizi. Il messaggio politico è chiaro: la DEI, così come è stata intesa fino a oggi, non ha più spazio nel contratto sociale proposto dall’attuale leadership statunitense.
Prime reazioni: tra ritirate tattiche e resistenza
Molte imprese hanno già risposto con il taglio o la ridefinizione dei programmi: Meta, Google, Amazon, LinkedIn, Harley Davidson, persino alcuni big della consulenza come Accenture (che vendono servizi DEI…). Alcune hanno ribattezzato la DEI con nuovi nomi: “belonging”, “ambiente accogliente”, “valorizzazione del talento”, nel tentativo di salvarne l’essenza senza cadere sotto la scure dell’ordine esecutivo.
Ma non tutte si adeguano. Apple ha rigettato le pressioni di azionisti conservatori. Citigroup e General Motors hanno dichiarato che i loro valori restano immutati. Disney è finita sotto indagine per presunta “discriminazione DEI”, ma ha difeso pubblicamente le proprie politiche.
E nonostante i titoli allarmistici, un sondaggio di Resume.org rivela che solo il 5% delle aziende americane ha cancellato i programmi DEI, mentre il 65% intende mantenerli e il 22% prevede addirittura di aumentarli.
Uno dei passaggi più controversi e recenti riguarda l’internazionalizzazione della misura. Le ambasciate USA in Europa – a partire da Parigi – hanno inviato lettere alle grandi aziende europee con contratti federali statunitensi, chiedendo loro di dichiarare la conformità all’Ordine Esecutivo 14173. In alcuni casi è stato allegato anche un questionario.
La reazione della Francia è stata durissima: il ministero del Commercio estero ha parlato di “interferenza inaccettabile”. Anche l’Unione Europea ha ribadito il proprio impegno per la DEI, sottolineando come queste politiche siano parte integrante dei valori fondamentali dell’UE e strumenti chiave per attrarre talenti, promuovere innovazione e tutelare i diritti. “La nostra + un’Unione di uguaglianza” ha dichiarato un portavoce.
La narrazione distorta del “ritorno al merito”
Alla base di questa offensiva c’è una narrazione strategica: la DEI viene rappresentata come una forma di “discriminazione al contrario”. Il merito, secondo questa visione, sarebbe minacciato da programmi che “favoriscono” alcune categorie.
È una distorsione profonda, che ignora le finalità reali delle politiche di inclusione: garantire pari opportunità di accesso e crescita, rimuovendo ostacoli invisibili e bias sistemici che esistono, sono reali e discriminano da secoli intere categorie. La DEI non nega il merito, al contrario, lo difende ampliando la platea di chi può esprimerlo. Svuotare questa visione significa riportare le organizzazioni a un modello monoculturale, meno competitivo, meno innovativo e meno giusto.
Perché la DEI non si smonta con un decreto
La DEI non è un’ideologia o un trend usa e getta, ma una strategia di sviluppo organizzativo e sociale. È parte integrante delle pratiche di gestione moderna, della costruzione di team efficaci, della competitività in mercati complessi. E nei contesti democratici, rappresenta una forma concreta di presidio dei diritti civili.
E fortunatamente i trend in Europa ci confortano: secondo un recente sondaggio Mindwork l’81% delle imprese intende rafforzare o avviare programmi dedicati alla diversità, equità e inclusione. Non è soltanto un dato positivo. È una responsabilità condivisa nel contrastare ogni tentativo di cancellare i diritti umani.
Tentare di smantellare la DEI per via amministrativa – o peggio, imporre questa logica oltre confine – non è solo un atto politico discutibile, ma un danno per le imprese, per i lavoratori e per la società.
L’Europa ha ora un’occasione: non solo difendere i propri valori, ma rilanciarli con forza e coerenza, distinguendo chi ha davvero creduto in un futuro inclusivo e chi aveva solo seguito una moda passeggera.
Donald Trump – Foto LaPresse
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