(Intervista di Alessandro Caruso pubblicata su L’Economista, inserto de Il Riformista)
Che siano al 20% o al 10%, comunque i dazi USA possono scatenare conseguenze negative soprattutto sul mercato più toccato, quello agroalimentare. Le filiere tremano, per questo il presidente di Coldiretti Ettore Prandini questa settimana è stato ricevuto dalla Meloni. Le richieste? Destinare al comparto il 13% dei 25 miliardi di euro annunciati dal governo.
Qual è l’impatto previsto dei dazi USA sulle esportazioni agroalimentari italiane? Quali settori sono più a rischio?
«La decisione del presidente Trump di sospendere per 90 giorni i dazi reciproci è un segnale positivo, una misura temporanea che non risolve il problema alla radice. Resta infatti per tutti quello al 10%. Serve un impegno politico forte per eliminare definitivamente queste tariffe e riprendere il negoziato transatlantico, altrimenti il rischio tornerà a pesare come una spada di Damocle sulle nostre imprese. Il mercato USA è insostituibile: quest’anno l’export agroalimentare italiano ha toccato il record di 8 miliardi, con una crescita del 17%. I dazi mettono in pericolo questo percorso, frutto di anni di investimenti, relazioni e promozione. I settori più esposti sono vino, olio, pasta e formaggi, simboli del Made in Italy nel mondo. Non parliamo solo di grandi marchi: sono oltre 11.000 le aziende italiane registrate presso la FDA, molte delle quali piccole e medie imprese. Il dazio del 20% avrebbe potuto causare danni per oltre 3 miliardi tra mancate vendite, svalutazioni e stoccaggi. A pagare sarebbero stati i produttori italiani e i consumatori americani. Questa è una sfida economica e culturale: ogni spazio lasciato libero rischia di essere occupato da imitazioni che alimentano l’Italian sounding, un fenomeno che già oggi vale 40 miliardi di euro e rappresenta un furto d’identità per l’Italia».
Qual è stata la sensibilità che avete trovato nell’incontro con la premier Meloni? Cosa vi aspettate dal governo?
«Abbiamo riscontrato grande attenzione e concretezza. Abbiamo portato al tavolo le preoccupazioni di migliaia di imprese agricole che rischiano di pagare il prezzo di dinamiche geopolitiche indipendenti dalla qualità del nostro lavoro. Serve un’azione diplomatica forte a livello europeo, con una voce unitaria per scongiurare l’escalation commerciale. Abbiamo chiesto che almeno il 13% dei 25 miliardi di euro annunciati dal governo venga destinato all’agroalimentare, in linea con il peso del settore sull’export italiano verso gli USA. Ma non bastano i fondi di compensazione. Serve anche un incremento delle risorse per la promozione internazionale, un fondo di sostegno alla liquidità per gli importatori americani, oggi in difficoltà a causa dei dazi, da attivare rapidamente con il supporto di ICE, CDP, Sace e Simest. Accanto a questo, chiediamo misure strutturali: semplificazione burocratica, incentivi all’innovazione, digitalizzazione e un piano serio per la logistica».
Come valorizzare le filiere italiane di eccellenza in questo nuovo contesto globale?
«Bisogna lavorare su più livelli. Primo, rafforzare l’internazionalizzazione e migliorare il posizionamento dei nostri prodotti, puntando con decisione al segmento premium. Questo richiede una comunicazione efficace, capace di trasmettere il valore di qualità, sostenibilità, identità territoriale e benessere animale. Ma senza infrastrutture adeguate, tutto rischia di restare sulla carta. Le inefficienze logistiche ci costano 9 miliardi di euro all’anno. Non perdiamo mercati per la qualità, ma perché esportare costa troppo. Serve sbloccare le opere ferme, potenziare porti e collegamenti, investire in digitalizzazione e innovazione. L’Europa deve sostenere un vero piano di rilancio produttivo, partendo dalla sburocratizzazione e valorizzando l’agricoltura di precisione. e va sostenuto il modello dei contratti di filiera, come ad esempio quello che abbiamo sviluppato in Italia con Philip Morris, che ha salvato centinaia di tabacchicoltori con un progetto di investimenti serio per produzioni sostenibili e tracciate».
Nella settimana del Vinitaly, quali sono le vostre preoccupazioni sul settore del vino? Quali umori avete riscontrato tra i produttori?
«Il vino italiano è una delle nostre eccellenze più amate, ma vive una fase delicata. A Vinitaly si percepisce un clima di unità e determinazione, ma anche incertezza per l’impatto dei dazi e il calo dei consumi in mercati chiave. C’è anche molta voglia di trovare una soluzione e continuare a lavorare. Il settore chiede visione di lungo periodo: promozione mirata, tutela delle denominazioni, accesso a nuovi mercati e difesa dell’identità italiana. A Casa Coldiretti abbiamo lanciato il motto “Keep Calm and bevi vino italiano”. La proposta UE di etichettature allarmistiche va nella direzione opposta. Lo abbiamo detto chiaramente al Commissario europeo alla Salute, che ha condiviso le nostre perplessità: servono messaggi equilibrati, non demonizzazioni».
La crisi dei dazi si aggiunge all’aumento dei costi dell’energia. Non è un buon momento per gli imprenditori agricoli. Cosa dovrebbe fare la politica?
«L’agricoltura italiana ha mostrato resilienza in ogni emergenza. Oggi però affronta una pressione senza precedenti: dazi, caro energia, inflazione, concorrenza sleale, accesso al credito complicato, burocrazia soffocante. Servono strumenti concreti e come agricoltori li sappiamo cogliere. Le faccio un esempio: con i fondi del PNRR abbiamo investito 3 miliardi di euro con 2,5 miliardi di contributi pubblici per i pannelli fotovoltaici sui tetti delle nostre aziende e stalle. Sono più di 23 mila gli agricoltori che grazie a questa misura oggi sono più tutelati dal rincaro dell’energia e anzi cedono alla rete l’elettricità che va oltre il loro autoconsumo. Serve un patto per il futuro del comparto: investimenti, formazione, semplificazione, tutela delle filiere e sostegno ai redditi. E serve che l’Italia, insieme all’Europa, agisca ora per salvaguardare un patrimonio che vale come sistema oltre 620 miliardi di euro e 4 milioni di occupati».
L’Italia si deve aprire ad altri mercati? Quali sono i rapporti con la Cina?
«Aprirsi e far crescere nuovi mercati è importante, ma non basta cambiare interlocutore per proteggere il nostro export. I dati parlano chiaro: negli USA vendiamo quanto in 14 Paesi emergenti messi insieme. Servono anni per promuovere i nostri prodotti presso i consumatori, come stiamo facendo anche in Cina che rappresenta un’opportunità in crescita, ma anche una sfida complessa. Qui l’export italiano ha raggiunto nel 2024 i 633 milioni di euro (+8%), con vino, formaggi e pasta tra i prodotti più esportati. Tuttavia, il saldo commerciale resta negativo e il mercato è invaso da falsi Made in Italy: oltre il 53% dei prodotti “italiani” sugli scaffali cinesi è contraffatto approfittando della mancanza di obbligo di etichettatura d’origine. A questo si aggiungono gravi problemi di reciprocità e sicurezza: nel 2024 sono stati segnalati 52 allarmi alimentari legati a prodotti cinesi, spesso contaminati da sostanze vietate in Europa. In sintesi non possiamo permetterci di perdere gli USA, che restano il nostro primo mercato extra-UE e un pilastro per migliaia di imprese italiane».
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