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L’Europa è chiamata a difendere il Green deal dalle richieste d’oltreoceano


Il confronto tra modelli di sviluppo sembra entrato in una nuova fase, forse decisiva. La proposta recentemente ventilata da Donald Trump, cioè meno dazi in cambio di massicci acquisti europei di gas naturale liquefatto statunitense (per un valore di circa 350 miliardi di dollari), non rappresenta solo una questione commerciale, ma un passaggio simbolico e sostanziale nella ridefinizione dei rapporti tra Stati Uniti ed Europa sul terreno dell’energia, della competitività e della sostenibilità. Questa “offerta” ha inoltre l’intento, non così velato, di rallentare l’attuazione del Green deal europeo, il piano formulato dall’Ue per raggiungere la neutralità climatica al 2050, tagliare le emissioni climalteranti di almeno il 55% entro il 2030 (rispetto al 1990), e per programmare una crescita strategica per l’intera economia europea, in risposta alle diverse crisi economiche e sociali a cui siamo stati esposti negli anni. 

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Come evidenzia l’analisi pubblicata da Ecco, il think tank per il clima italiano, nel 2023 la bilancia commerciale di beni e servizi tra Stati Uniti e Unione Europea ha registrato un avanzo per l’Europa di appena il 3%. Non si tratta dunque di uno squilibrio strutturale che giustifichi una rinegoziazione profonda degli accordi commerciali. Tuttavia, un’analisi più attenta rivela che oltre il 50% dell’export statunitense verso l’Europa è concentrato in settori altamente esposti alla transizione ecologica: combustibili fossili, prodotti derivati dal petrolio, motori a combustione interna, aviazione.

Si tratta di comparti industriali che, nel medio termine, vedranno inevitabilmente una contrazione della domanda in Europa, man mano che le politiche climatiche europee – in linea con l’Accordo di Parigi – entreranno pienamente a regime. Non sorprende quindi che la proposta di vincolare l’Europa ad acquisti massicci di gas fossile per un lungo periodo sia sostenuta da quegli stessi settori industriali che, oggi, temono di perdere quote di mercato in un mondo che cerca di orientarsi sui binari della decarbonizzazione.

Grazie al Green Deal l’Unione europea ha compiuto passi significativi verso un nuovo modello energetico. Solo nel 2023, la quota di elettricità prodotta da fonti rinnovabili ha raggiunto il 44%, mentre quella da combustibili fossili è scesa del 19%. Questo processo ha permesso di evitare l’importazione di fonti fossili per un valore pari a 59 miliardi di euro. Non si tratta solo di un beneficio ambientale, ma di un rafforzamento della resilienza economica e geopolitica del continente. La proposta statunitense rischia dunque di compromettere questa traiettoria. Più che una misura per riequilibrare i rapporti commerciali, essa sembra configurarsi come uno strumento per condizionare il percorso europeo di decarbonizzazione, vincolando gli Stati membri a lungo termine a forniture fossili che entrerebbero in contraddizione con gli obiettivi climatici.

Ma la sfida che si delinea non riguarda solo l’energia. Riguarda la capacità dell’Europa di difendere e rafforzare la propria visione di sviluppo sostenibile. Una visione che riconosce la centralità delle tecnologie pulite, dell’efficienza energetica, dell’economia circolare e della coesione sociale come pilastri della competitività. Accettare una condizionalità energetica che rallenti la transizione significherebbe non solo indebolire l’ambizione climatica, ma anche rinunciare al ruolo guida che l’Europa si è attribuita nella trasformazione dei modelli produttivi globali. Al contrario, respingere questa proposta in favore di una politica estera energetica coerente con gli obiettivi climatici può rappresentare un atto di responsabilità verso le generazioni future e verso un’economia europea più forte, autonoma e innovativa.

Oltre a quelle d’oltreoceano, va purtroppo segnalato che lo slancio verso il cambiamento trova resistenze anche all’interno dell’Ue, soprattutto negli ambienti conservatori, inclini a mettere in discussione il Green deal. Uno strumento spesso indicato come responsabile di varie criticità, tra cui la crisi del settore automobilistico italiano. 

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In realtà la crisi dell’automotive ha radici ben più profonde. Le serie storiche dimostrano chiaramente che l’industria dell’auto è passata dal produrre quasi 2 milioni di auto nel 1990, al milione e mezzo nel 2000, alle 570mila unità nel 2010, per arrivare a 540mila nel 2023. In sostanza, il calo della produzione italiana è arrivato ben prima del 2019, anno in cui è stato varato il Green deal. Uno strumento che ha il compito di orientare anche gli investimenti delle imprese, che in molti casi non soffrono di mancanza di liquidità, come dimostra il fatto che grandi industrie dell’auto, per esempio Stellantis e Mercedes-Benz Group, hanno preferito destinare nel periodo 2010-2023 rispettivamente il 30% e il 40% degli utili netti (il profitto di un’azienda dopo aver sottratto tutti i costi operativi, tasse comprese) ai propri azionisti piuttosto che all’innovazione.

La scelta dell’Ue di far immatricolare dal 2035 solo automobili (ma anche furgoni e autobus) in grado di non produrre alcuna emissione al tubo di scappamento è poi dovuta ad altri due fattori. Il primo è proprio quello competitivo, relativo alla veloce trasformazione in chiave elettrica che sta interessando il più grande mercato al mondo, cioè quello cinese. Il secondo, ha carattere ambientale, con importanti risvolti per la salute dei cittadini europei. Non va infatti dimenticato che la discussione sulla messa al bando dei motori endotermici è figlia dello scandalo diesel-gate del 2017, quando si è scoperto che l’azienda Volskwagen aveva installato sulle proprie auto un software capace di falsificare le emissioni inquinanti in fase di test.

In generale, secondo l’analisi dell’Agenzia europea per l’ambiente, l’inquinamento atmosferico – composto per esempio da biossido di azoto (NO2), particolato fine (Pm 2,5 e Pm 10) e ozono (O3) – provoca ogni anno un grosso carico di malattie respiratorie e cardiocircolatorie, e la morte prematura di più di 300mila persone nell’Ue, con l’Italia che detiene la peggiore qualità dell’aria di tutta Europa. A questo va aggiunto che, per quanto riguarda la CO2 emessa, il settore dei trasporti resta l’unico in Europa ad aver aumentato piuttosto che ridotto la quantità di gas serra, generando il 28,9% delle emissioni totali nel 2022 (più 25,9% rispetto al 1990).

Seppur non perfetto – piuttosto che cancellarlo per certi aspetti andrebbe infatti rivista al rialzo l’ambizione del Green deal -, il perseguimento del piano europeo porterà diversi benefici, anche di natura economica. Prendiamo il caso del caro bollette, di cui tanto si discute nel nostro Paese ultimamente. Come ricorda il Dataroom di Milena Gabanelli sul Corriere della Sera, “negli ultimi 6 mesi il prezzo della materia prima nella bolletta elettrica in Italia è stato in media di 132 euro/MWh (Megavattora), rispetto a 104 in Germania (27% in più), 94 in Spagna (40% in più) e 90 in Francia (47% in più)”. Questo è dovuto al fatto che il costo finale dell’elettricità dipende dal “prezzo marginale”, cioè dal “prezzo dell’ultima unità di energia necessaria per soddisfare la domanda in un dato momento”. E in Italia, nel 2022, per il 63% del tempo è stato il gas a fare il prezzo, che si attesta su una media di 110 euro/MWh. Molto di più di eolico e fotovoltaico, che hanno un prezzo medio che varia tra 25 e 85 euro/MWh (in base alla zona di produzione). Ciò significa che sviluppare energia rinnovabile, raggiungendo così la neutralità carbonica come previsto dal Green deal, è utile sia a combattere la crisi climatica sia a ridurre il costo dell’energia per le famiglie. Di pari passo, ricorda il Rapporto Draghi, occorrerà anche cambiare le regole di mercato del settore dell’energia in modo da garantire il disaccoppiamento del prezzo dell’energia rinnovabile da quelli più alti, e volatili, dei combustibili fossili. Solo così le famiglie potranno godere a pieno dei benefici economici, e ambientali, derivanti dall’uso delle fonti pulite. 

Di disuguaglianze, di Green deal, di rinnovabili, e di tanto altro, si discuterà durante il prossimo Festival dello Sviluppo Sostenibile dell’ASviS, in tutta Italia dal 7 al 23 maggio. Durante la Conferenza stampa di presentazione del 18 aprile sarà presentata l’intera campagna di comunicazione del Festival che, alla luce di quanto scritto fino a ora, ribadirà un semplice quanto importante concetto: “la sostenibilità ci riguarda da vicino. Molto da vicino”. 

 

Copertina: Ansa



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