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Italia, cimitero di talenti: fuga dalle aziende senza sosta


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L’Italia conquista un primato poco invidiabile: è il Paese in cui i talenti sono più inclini a fare le valigie e andarsene dalle aziende.

Nel panorama europeo del lavoro, l’Italia conquista suo malgrado, un primato poco invidiabile: è il Paese in cui i talenti sono più inclini a fare le valigie. A confermarlo è l’European Workforce Study 2025 condotto da Great Place to Work, secondo cui ben 4 lavoratori italiani su 10 dichiarano di voler cambiare impiego entro l’anno.

Un dato che pesa come un macigno, soprattutto se confrontato con la media europea del 31%. Peggio di noi, nessuno. Francia e Polonia inseguono a quota 38%, mentre Portogallo, Irlanda, Cipro, Grecia e Regno Unito oscillano poco sotto questa soglia. Un fenomeno che rivela una falla strutturale nel sistema aziendale italiano, incapace di trattenere le proprie risorse più preziose.

Generazione Z: la fuga inizia presto

A trascinare questa ondata di dimissioni è la generazione più giovane, quella dei nati tra il 2000 e il 2007. I Gen Z non si accontentano e sono i più propensi a voltare le spalle all’azienda: il 40% degli under 25 ammette di voler cambiare lavoro a breve.

Un segnale forte e chiaro: se l’ambiente non stimola, se il management non ascolta, i giovani non restano a lungo. Un atteggiamento che fa emergere una frattura sempre più ampia tra le aspettative delle nuove leve e la cultura organizzativa ancora troppo ancorata a vecchi schemi.

Stabilità? solo con l’età. Il conto salato del tornover

L’analisi evidenzia un trend chiaro: la propensione a cambiare lavoro diminuisce man mano che l’età avanza. Dopo i Gen Z, il 36% dei lavoratori tra i 25 e i 34 anni valuta un cambio di rotta, percentuale che scende progressivamente fino ad arrivare al 25% tra gli over 55.

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Un dato che conferma come, per i più giovani, il posto fisso sia un miraggio (e forse un miraggio che non interessa più). Per le aziende, però, il costo di questo esodo silenzioso può diventare insostenibile.

Trattenere i talenti è più che una sfida: è una questione di sopravvivenza economica. Secondo i dati Gartner, l’87% dei responsabili HR ha messo la retention in cima alle priorità strategiche per il 2025. Non senza ragione: trattenere un dipendente costa molto meno che sostituirlo.

Una simulazione condotta da Great Place to Work Italia parla chiaro: in un’azienda media con un turnover del 10% (dati del Nord Italia), la perdita di personale può tradursi in un costo annuo di 200mila euro. E non si tratta solo di denaro: il vero danno è la perdita di know-how e produttività.

La cura per l’emorragia di talenti: i compromesso che funziona

Non esistono soluzioni lampo, ma una strada è tracciata: investire nel benessere dei dipendenti e costruire un employer branding credibile, basato su un dialogo reale con i collaboratori.

Un ambiente capace di ascoltare e valorizzare i propri dipendenti non solo abbassa il tasso di turnover, ma rafforza anche il senso di appartenenza e coesione interna, elementi oggi sempre più determinanti nella scelta di un posto di lavoro.

Tra le leve più efficaci per blindare i talenti c’è il lavoro ibrido. Secondo il report, solo il 24% dei dipendenti che possono alternare smartworking e presenza in ufficio manifesta l’intenzione di cambiare lavoro, contro il 34% di chi lavora esclusivamente in sede e il 37% dei full remote.

In settori come tecnologia, finanza e servizi professionali, oltre la metà dei lavoratori sceglie attivamente la flessibilità. Un lusso ancora negato invece in ambiti come il retail, l’ospitalità e la produzione, dove la rigidità operativa sembra scoraggiare qualunque tentativo di modernizzazione.

Qualche mossa per fermare la fuga dei dipendenti dalle aziende

Secondo gli analisti di Great Place to Work Italia, le aziende che vogliono arginare questa emorragia devono puntare su qualche azione come:

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  1. Sostenere un vero equilibrio tra lavoro e vita privata;
  2. Garantire retribuzioni adeguate e trasparenti;
  3. Premiare e riconoscere il valore delle persone;
  4. Coltivare la fiducia tra manager e collaboratori;
  5. Individuare i punti critici e affrontarli apertamente;
  6. Offrire reali opportunità di crescita professionale;
  7. Investire nella formazione continua;
  8. Implementare politiche di smartworking flessibili.

Il messaggio è lampante: se l’Italia non vuole rimanere la “terra di passaggio” dei talenti, occorre ripensare radicalmente le logiche aziendali, abbandonando vecchie pratiche e investendo nella cultura dell’ascolto e dell’inclusione. Altrimenti, l’unico dato in crescita sarà quello delle dimissioni.



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