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cronaca di una strategia incomprensibile


Lo stato non solo mantiene il 65 per cento di Poste, ma tramite quest’ultima aumenta le partecipazioni pubbliche acquisendo il controllo di Tim. L’ennesima inversione di marcia. Forse spiegabile con quattro P: Partecipazioni pubbliche, per avere le Poltrone che danno Potere alla Politica

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Ventotto anni fa, in quella che fu la “madre di tutte le privatizzazioni” lo Stato usciva da Telecom Italia (oggi Tim). Ma poiché “certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano” come nella canzone di Venditti, oggi lo Stato ritorna in controllo della società telefonica tramite l’acquisizione della sua maggioranza relativa da parte di Poste Italiane, dove Cdp e Mef assieme detengono i due terzi del suo capitale. L’ingresso di Poste in una società telefonica suggerisce due ordini di considerazioni: quale è la strategia di questo governo nei confronti dell’intervento pubblico nelle imprese, e la logica per Poste del controllo di fatto di Tim.

Il ritorno dello stato in Tim risale all’aprile 2018, quando Cdp, con Vivendi al comando, acquistò il 5 per cento. L’obiettivo non era quello di scalzare i francesi ma di sbarrare la strada al fondo speculativo americano Elliott, noto per le sue tattiche aggressive; e che il mese prima a sua volta aveva comperato il 5 per cento di Tim. Sempre per contrastare gli americani, l’anno dopo Cdp era salita al 10 per cento, pareggiando l’incremento della quota di Elliott, e diventare l’ago della bilancia nello scontro con i francesi. Obiettivo raggiunto, visto che un anno dopo Elliott lascia la partita ed esce da Tim. Cdp voleva impedire che Elliott facesse lo “spezzatino”, separando, per poi cederle, le attività di Tim (la rete, Sparkle, telefonia mobile, servizi alle imprese, Brasile).

Ma quattro anni dopo, con il nuovo governo, lo stato fa inversione di marcia, orchestrando proprio lo “spezzatino” che prima voleva impedire. A parole l’intento è la creazione della società della “rete unica”, in pratica il risultato è lo stesso che voleva Elliott.

Nell’operazione di scissione lo stato è stato azionista del venditore, Tim, ma anche socio di KKR in FiberCop che ha comprato la rete, di Ardian per l’acquisto di Sparkle, oltre ad avere il controllo di OpenFiber che vorrebbe fondere con FiberCop, nonché finanziatore di tutte e due le società tramite il Pnrr. Un enorme conflitto di interessi, specie tenuto conto che lo stato è anche il Regolatore.

Una volta scissa la rete, logica vorrebbe che lo stato uscisse da Tim, anche perché Tim è il maggior cliente di FiberCop. Invece, non solo non esce, ma ne acquisisce il controllo con Poste, altra società pubblica e regolamentata. L’aspetto ironico è che il governo poco più di un anno fa aveva annunciato un piano di privatizzazioni di cui Poste doveva essere il fiore all’occhiello. Il decreto prevedeva che lo stato riducesse la sua partecipazione in Poste dal 65 al 35 per cento tramite la cessione del 30 per cento detenuto direttamente dal Mef (il rimanente è di Cdp) prevalentemente a investitori istituzionali.

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Nella sua audizione in parlamento il ministro Giorgetti spiegava infatti i vantaggi della cessione sottolineando come «l’operazione creerà più flottante ampliando la compagine azionaria a nuovi investitori qualificati, con un prevedibile rafforzamento del titolo».

Passa un anno e lo stato non solo mantiene il 65 per cento di Poste, ma tramite quest’ultima aumenta le partecipazioni pubbliche acquisendo il controllo di Tim. Un’altra inversione di marcia. Una strategia incomprensibile: il governo prima orchestra la scissione di FiberCop, strumentale a creare la società della rete unica assieme a OpenFiber, a controllo pubblico; poi acquista Sparkle sempre da Tim; e infine si prende pure il controllo di Tim tramite Poste, dopo aver detto di volerla privatizzare. Tanto valeva lasciare Tim unita, con lo Stato in controllo. L’unica strategia che riesco a decifrare è quella delle quattro P: partecipazioni pubbliche, per avere le poltrone che danno potere alla politica.

Le Poste sono una storia di successo: da prima del Covid il titolo è salito del 140 per cento, il doppio dell’indice del mercato europeo. La sua attività originale (i pacchi) pesa ancora per il 30 per cento dei ricavi, ma cresce poco ed è in perdita. Crescita e redditività derivano interamente dai servizi finanziari, assicurativi e sistemi di pagamento (PostePay). Le polizze costituiscono la principale fonte di profitto (metà degli utili); PostePay e i servizi digitali il segmento a maggiore crescita (oltre 9 per cento); mentre il grosso dei ricavi deriva dalle commissioni di collocamento in esclusiva del Risparmio Postale (Libretti e Buoni fruttiferi) per conto di Cdp, e dal margine di interesse che rispetto alle banche ha il vantaggio di non essere esposto al rischio di credito (anche per i prestiti Poste agisce come intermediario).

Insomma, Poste è la somma di una “banca” senza rischi, un’assicurazione, e una fintech, capace di generare flussi di cassa in crescita stabile, per lo più garantiti dallo stato, e senza dover fare grossi investimenti di capitale. Così, Poste vale in Borsa 1,8 volte il suo patrimonio stimato per quest’anno, una valutazione superiore di quella di Generali, Intesa e Unicredit (rispettivamente, 1,5, 1,3 e 1,2 il loro patrimonio). Sinergie, a cercar bene, se ne possono anche trovare tra i servizi di Poste e quelli di Tim; ma dubito fortemente che siano in grado di incidere significativamente sui conti di entrambe, o che giustifichino un investimento pubblico da 1,8 miliardi (il 25 per cento di Tim), proprio dopo che il Mef ha fatto marcia indietro sulla cessione del suo 30 per cento in Poste, che ai corsi attuali di miliardi ne vale 6,6. Forse in Cdp hanno adottato il motto dei carabinieri: «Usi ubbidir tacendo».

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