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La difficile eredità politica di papa Bergoglio


Cosa rimarrà di Bergoglio nella storia politica? Cosa lascia il pontificato di Francesco nella politica internazionale? Tre cose, credo. La prima è il populismo, tratto tipico del cattolicesimo argentino. La sua filosofia della storia, la stessa dai tempi del noviziato, ne incarna il nucleo ideale, ne realizza la pulsione a sacralizzare il “popolo”. C’era una volta un popolo puro, recita la parabola bergogliana, il “popolo mitico” innocente e virtuoso. Ma ecco un’élite corromperlo, ecco i ceti secolari contaminarlo. Fino al giorno del giudizio, a quando un Redentore, un caudillo pio e popolare, lo redimerà per condurlo alla terra promessa. Apocalissi e redenzione, millenarismo ed escatologia: Dio, patria e popolo. Di figure come Bergoglio gronda la storia latinoamericana, storia dove la politica è religione e la religione politica.

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Il retaggio populista spiega il secondo lascito del Bergoglio politico: l’avversione all’Occidente, se per Occidente intendiamo la peculiare miscela di fede e ragione, comunità e individuo, Atene e Gerusalemme della nostra civiltà. Erede della cristianità ispanica cresciuto in un cattolicesimo che quella cristianità elevò a mito nazionale e popolare, Bergoglio prima e Francesco poi non hanno mai avuto dubbi su chi sia il “popolo puro” e chi “l’élite corrotta”: il primo sono i “poveri” forgiati dall’evangelizzazione, la seconda, incarnata da Calvino e Locke, è quella che dalla Riforma protestante condusse al razionalismo, dall’illuminismo al liberalismo e al capitalismo. Fino a sfociare nella secolarizzazione, equivalente a “scristianizzazione”.

La geopolitica bergogliana è il coronamento dei due tratti precedenti. E’ una geopolitica antiliberale e antioccidentale. Affatto originale, è la proiezione globale della Terza Posizione peronista, “comunista di destra” perché comunitaria ma religiosa, “fascista di sinistra” perché nazionale ma popolare. Via aperta dai fascismi cristiani tra le due guerre del secolo scorso tra “plutocrazie demoliberali” e “comunismo ateo”. Il Terzomondismo ne è l’ideale prolungamento, “l’ecumenismo del povero” la ricetta: “verrà un’epoca di grande sincretismo”, apprese Bergoglio da Alberto Methol Ferré, il maestro più influente, di una religione capace di sintetizzare “l’insieme delle tradizioni religiose mondiali” e di unirle contro il nemico comune, l’Occidente secolare e le élite occidentalizzate che attentano alle virtù religiose dei “popoli”. Non v’è viaggio nel Sud del mondo in cui Francesco non abbia ammonito i “poveri” a non cedere alle sirene tentatrici del progresso occidentale. Tali sono le radici del suo viscerale antiamericanismo, della sua attrazione per il populismo russo, dell’ammirazione per la matrice confuciana del comunismo cinese, dell’ossessiva e spesso accomodante ricerca d’intesa con l’Islam. La loro ispirazione olistica evoca la cristianità antica, è l’antitesi del razionalismo occidentale.

Tanti si chiedono se Bergoglio lasci un’eredità progressista, se il suo pontificato sia stato “rivoluzionario”. Sono etichette inadeguate, domande mal poste. Qualcuno ne troverà forse “progressista” l’opposizione del popolo alle élite, del plebeo all’intellettuale, del Sud al Nord. Ma gli risulterà difficile definire tale il malcelato disprezzo per la scienza e la ragione, la predica pauperista e paternalista, la resistenza all’innovazione e all’autodeterminazione dell’individuo.

“Progressisti” sono parsi a tanti le aperture sui “valori non negoziabili”, su cui era stato inflessibile in patria, dove in loro difesa combatté numerose “guerre di Dio”. Aperture verbali più che fattuali, frutto di molti equivoci più che di ferme convinzioni. Figlio di un cattolicesimo integrale, a Bergoglio importa meno “la pecora nell’ovile” delle pecore che dall’ovile sono fuggite: vorrebbe tutti dentro. La Chiesa com’egli l’intendeva non è parte del tutto ma il tutto che unifica le parti: voleva ricondurre la differenza all’unità, il conflitto ad armonia, le persone al “popolo”. Il suo progressismo strideva col pluralismo. Perciò fece il progressista nell’Occidente secolarizzato, dove le pecore in libera uscita sono maggioranza, ma cavalcò il tradizionalismo ovunque altrove nel mondo, dove si sgolò a denunciare le “colonizzazioni ideologiche” occidentali.

Penso che Francesco lascerà un’impronta meno profonda di quanto faceva presagire agli inizi, di quanto promettevano i suoi grandi propositi: troppo liquido e contraddittorio, retorico e confusionario, autoritario e inconsistente. Pescare un Papa nella Chiesa argentina, una Chiesa trionfalista che trionfando aveva contribuito alla decadenza di un paese un tempo colmo di speranze, era d’altronde un azzardo: un modello buono per il passato più che per il futuro. Francesco lascia irrisolti i nodi che era stato chiamato a sciogliere: la religiosità cresce ma lontano dalla Chiesa cattolica. La sua impronta più profonda rimarrà il distacco dall’Occidente, la scommessa su un ordine post liberale. Una buona idea?

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